mercoledì 6 maggio 2015

Ritratto di una depressione (parte quarta)

La giovane donna depressa, nel corso di una domenica mattina visitata da un numero imprecisato di velleitari propositi di cambiamento interiore, aveva rimosso dai muri della propria abitazione tutti i quadri ammassandoli nel ripostiglio (aveva lasciato a ogni modo i chiodi conficcati), e nei giorni immediatamente successivi, rincasando, la vista delle pareti spoglie, l’ingresso nelle stanze denudate, si erano rivelati per lei motivo di una certa qual inspiegabile consolazione.

venerdì 24 aprile 2015

Ritratto di una depressione (parte terza)

La giovane donna depressa aveva, così si era espressa senza mezzi termini nel corso di una seduta di psicoterapia, archiviato negli ultimi mesi le frequentazioni a suo dire del tutto effimere dell’adolescenza e giovinezza, le “amiche di vecchia data” – aveva sottolineato l'espressione con un tono sarcastico della voce, inoltre in quel medesimo istante aveva messo l'espressione tra virgolette con il gesto delle dita mentre la pronunciava di fronte alla psicoterapeuta - le “amiche di vecchia data” che a differenza di lei si erano tutte sistemate da tempo con un uomo una volta per tutte, “amiche” per le quali, assediate com'erano dalla quotidianità dei rispettivi mariti e pargoli, la depressione era un lusso che non si potevano concedere, frase che una delle suddette “amiche di vecchia data” aveva pronunciato – senza dubbio per rappresaglia nei confronti della donna depressa - nel corso di una telefonata attraversata da una corrente sotterranea di impenetrabile ostilità reciproca, raggiungendo lo scopo di trapassare emotivamente da parte a parte la giovane donna depressa.

giovedì 23 aprile 2015

Ritratto di una depressione (parte seconda)

La giovane donna depressa giudicava tristemente ironico, anzi umiliante e patetico, il suo essere costretta a comprare l'ascolto attento e partecipe di qualcuno, a corrispondere denaro per ricevere in cambio un aiuto equilibrato e paziente da parte di un'altra persona; anche se poi, ripensandoci a mente fredda, era perfettamente in grado di comprendere come il fatto che la psicoterapeuta non nutrisse altra aspettativa o pretesa nei suoi confronti a parte quella di venire pagata puntualmente al termine di ogni seduta garantisse quel distacco professionale nel rapporto tra le due donne indispensabile a renderlo immune dalle fluttuazioni emotive, dalle dinamiche ricattatorie e dai saliscendi umorali propri delle interazioni naturali tra persone.

martedì 21 aprile 2015

Ritratto di una depressione (parte prima)

La giovane donna depressa aveva trovato il modo di riempire con il lavoro la quasi totalità delle ore di veglia, per quanto giudicasse l’ambiente nel quale alcuni anni addietro si era volontariamente rinchiusa ripugnante e ottuso oltre ogni possibile descrizione. Tuttavia, segregarsi il più a lungo possibile nel posto di lavoro, per quanto si trattasse di una reclusione spaventosa e ipocrita (aveva finito con l’ammetterlo, con le lacrime agli occhi, nel corso di una seduta di psicoterapia nella quale ricordava di avere sollevato e spostato dentro di sé, per lunghi interminabili minuti, blocchi di sofferenza psichica pesanti come macigni), era in ogni caso, per la giovane donna depressa, preferibile rispetto a quella spirale autodistruttiva del pensiero rappresentata dalla questione della cosiddetta occupazione del tempo libero.

sabato 17 gennaio 2015

Autogrill

Le tempie avevano smarrito quell'improvvisa voglia di domani.
L'unica era mettersi al volante e di corsa fuori dalla città,
cercare una risposta, fermarsi al primo autogrill.

Tra la portiera sbattuta forte e le ombre scompagnate
rincorro un cane nel piazzale con la certezza grata
di potere finalmente dire addio alle forme.

Raccolgo la notizia da uno straccio di giornale.
Forse la trovo per caso, sembra scritta con l'asfalto,
la breve che non ci sei più, è come leggere la mia.

mercoledì 17 dicembre 2014

Sotto la pelle

Destino commerciale scontato per una tra le opere visive più radicali e rivelatrici del nostro tempo, "Under the Skin" di J. Glazer (qui una recensione). Distribuito in un numero esiguo di  sale italiane, rivolto a un pubblico di "adepti di cinema" – abitanti di una riserva indiana a un passo dall'estinzione, o forse a un pubblico di domani che oggi ancora non esiste; predestinato a una sparizione "rapida e indolore" dalle sale dopo pochi giorni di proiezione, il "film" spende da subito, con riscontri a ogni modo risibili sul piano commerciale, e al prezzo di prevedibili fraintendimenti e di sistematiche banalizzazioni e messe in ridicolo, la carta della notorietà della protagonista e dell'appeal presunto delle sue immagini emblematiche: la nudità lattea, morbida e convessa di Scarlett Johansson, grimaldello per assicurarsi un minimo di affluenza nelle sale, a discapito della stroncatura scontata e ottusa da parte della critica mainstream, e prima dell'inevitabile "condanna del passaparola" da parte dello sciame degli spettatori occasionali.
Ma la fisicità ostentata e “naturale” della Johansson risulta svuotata, l'appeal è soltanto presunto e viene programmaticamente disatteso per l’intera durata del “film”. Perché la sensuale protagonista è – questa in superficie la narrazione di "Under the skin" - un essere alieno il quale, assunte avvenenti sembianze femminili, vaga in una Scozia notturna e spettrale sospinto da un unico, primario, meccanico bisogno: la necessità di procurarsi cibo umano. Abborda uomini – uno alla volta - e li convince a seguirla, per poi imprigionarli e cibarsene con calma. Il miraggio sessuale, a cui gli uomini cedono docilmente, in uno stato di rapimento simile all’ipnosi, è del tutto funzionale alla gelida urgenza dell'alieno di placare la propria, inesauribile, fame. Non c'è desiderio erotico che venga soddisfatto, l’uomo è nient’altro che preda, e in fondo è pure consenziente; lo sguardo che l’entità aliena gli rivolge possiede lo stesso grado di partecipazione emotiva, di compassione, di uno sguardo umano vorace che vada a posarsi su un piatto di molluschi, con la differenza che l’alieno si nutre degli uomini catturati mentre sono ancora vivi...

Nient’altro accade nel “film”. Glazer è il medico legale che redige l'attestato di morte del cinema come forma di "racconto per immagini".

Poco importa che nel suo peregrinare sulla Terra l'essere alieno finisca per essere emotivamente “contaminato” dall’incontro con un giovane ("lynchiano") elephant man, e con la sua brutale, rassegnata condizione di solitudine; anche in questo caso, nessuna concessione al sentimentalismo consolatorio, al pietismo autoindulgente e ricattatorio. L’uomo deforme non è più solo su questa Terra, e non è meno allettato, eccitato all’idea del concretizzarsi di una fantasia - l’incontro sessuale occasionale con la donna sconosciuta - di quanto non lo siano le altre vittime, esteriormente “normali”, che l’alieno “aggancia” lungo il suo cammino: neppure lui, l’elephant man, è in grado di sopravvivere all’incontro con l’Altro. Allo stesso modo, poco importa che alla fine l’essere alieno paghi a caro prezzo l’essersi in qualche modo lasciato coinvolgere emotivamente, l’essersi esposto a quel virus che è l’essere umano, finendo con l’essere travolto dalla violenza e crudeltà di cui l’umanità è, per impianto genetico, portatrice…

Regista affermato di videoclip (Massive Attack, Radiohead, Jamiroquai, Nick Cave), in “Under the skin” Glazer ne capovolge completamente la logica: realizza un "videoclip" dove non sono le immagini a fare da supporto, da accompagnamento, più o meno organico, al continuo sonoro (il brano musicale), bensì domina l’assenza di suono: lo sguardo dello spettatore è catturato dalla visione stessa.
Fin dall'inizio del "film", qui mirabilmente "raccontato":
"Though it's somewhat perplexing at the start, the most impressive sequence of Under the Skin is ultimately its intro, a hallucinatory succession of circular images like the one above. Those who've cited this HAL-9000-like still to highlight Glazer's apparent Kubrickian influence aren't giving the director enough credit. Indeed, this robot-esque peeper resembles the “face” of the ominous supercomputer in 2001: A Space Odyssey, but what this sequence should be recalling for viewers is an earlier moment in 2001, when the shot of an ape-man's hurled bone cuts to a shot of a nuclear weapons satellite—an epic, multi-million-year leap encompassing humanity's progress in employing dangerous tools. It's the most famous match cut of all time, and Glazer, intentionally or not, reaches for its greatness while opening Under the Skin. Through this quick transition of orbs and oculi, he seamlessly gives us all the backstory we need, showing planets suggestive of the alien's origin, an otherworldly eye that's presumably the creature's own, and finally, the human iris belonging to the female form that's inhabited."



Già dall’incipit, programmatico e riassuntivo dell’estetica tutta di Glazer, immerso in un bianco abbagliante - la modellazione dell’occhio umano nell’essere alieno -, Glazer vuole posizionare la sua opera sotto i riflettori della visione: il film deve essere “visto”
L’occhio dello spettatore vede l'occhio "altro", il processo di costruzione della “vista umana” nell’alieno; lo sguardo umano è osservato da uno sguardo "disumano", da quello sguardo è sequestrato e rinchiuso dentro se stesso, nello sgomento di apprendere di non essere più l'ultimo anello della catena alimentare. 

Il silenzio è ovunque, ma non c’è rimando a un Non Detto semanticamente denso, non c’è proliferazione del Sottinteso.

Silenzio che è “in” –  il dialogo è abolito, anche laddove esteriormente presente. I dialoghi sono rarefatti; i pochi che sono pronunciati sono spesso incomprensibili, oppure banali, sempre finti.
La colonna sonora è, anch'essa, “silenziosa”: dissonanze di strumenti ad arco, un ritmo percussivo, tribale, che allude a un rituale di morte.
Silenzio che è “off” - assenza di commenti esplicativi o didascalie. I tentativi di usare il cinema per spiegare l'uomo e il suo mondo sono, per Glazer, carta straccia.
Il silenzio inchioda lo sguardo alla visione. Il Bianco dell'incipit lascia posto al Nero. Brutalmente, senza gradazioni intermedie.
La prigione nella quale l’alieno conduce, una dopo l’altra, le proprie vittime è completamente nera, la trappola è del tutto priva di riferimenti visivi, una prigione senza sbarre al cui interno nessun limite è visibile, né angoli, né linee, né pareti… Esistono? Forse, la prigione nera è “in realtà” lo spazio dilatato della mente aliena.

Dilatazione temporale. Il tempo non più riempito dalle umane faccende e preoccupazioni, diventa qualcosa di altro anch’esso, oscuro e minaccioso. Lo scorrere del tempo viene manomesso, stravolto.
L'evoluzione della trama, il suo sviluppo e con esso la caratterizzazione dei personaggi sono "bloccati", irrilevanti all'interno della temporalità dilatata della psiche aliena.
La ripetizione dei gesti dell'alieno è un meccanismo gelido e ossessivo: l'adescamento, la seduzione ipnotica, la nera prigione, il cannibalismo rappresentato a un livello astratto, concettuale; a sovvertire, scardinare i "generi" che qualifichiamo come "fantascienza" e "fanta-horror".


L’entità aliena attraversa lo spazio nero della prigione semi- o integralmente nuda…





La preda di turno segue il proprio carnefice, in uno stato di incantamento onirico, e mentre cammina si leva gli indumenti, finché la superficie nera su cui cammina si manifesta come un liquame denso - una consistenza a metà tra una gelatina scura e il catrame -, nel quale la vittima si immerge lentamente, senza opporre resistenza, fino a scomparire...





La superficie che sotto i passi dell'alieno continua ad apparire come marmo nero, lucido e riflettente, per la vittima si tramuta nel suo opposto. Ora la vittima è sotto la superficie. La prospettiva, la sequenza temporale sono ancora una volta alterate...




Nella nera prigione nessuna parola viene pronunciata, nulla viene detto. C'è solo il contrappunto silenzioso della "colonna sonora".

La preda umana si scopre immersa in un liquido amniotico che non è ambiente della vita ma veicolo di morte, che in qualche modo assorbe, consuma la sua forza vitale e la trasmette all’alieno. La vittima rimane sospesa in esso, quasi incapace di muoversi, galleggiando, in attesa di venire, poco alla volta, spolpata...



La mano della vittima sfiora quella gonfia, martoriata di un prigioniero catturato in precedenza, ricevendo da quel contatto silenzioso l’annuncio del proprio incombente destino...



L'uomo viene "consumato" da vivo, lentamente, finché di lui non rimane altro che pelle, superficie inerte ridotta a pellicola fluttuante nel nero, palloncino mezzo sgonfio, sfilacciato e rinsecchito...




In fondo il nero e il silenzio sono la parte più grande dell'universo, e dinanzi al loro incontrastato dominio l'essere umano non può che essere sedotto, rapito, fino a soccombere.

E’ questa la condizione umana? Transitiamo da un liquido all’altro, dal liquido amniotico al buio, il liquido nero nel quale veniamo immersi dalla nascita, gettati dentro e mai tirati fuori, sospesi, intrappolati, limitati nei movimenti, isolati l’uno dall’altro, ciechi. La luce di tanto in tanto, faticosamente, penetra l’oscurità, colpisce facce, busti, arti che cercano di muoversi dosando gli sforzi lentamente, infine stremati. Talvolta le estremità degli arti cercano un contatto. La luce rimbalza sulla superficie della materia, torna, a ritroso attraverso l’oscurità, alla vista di ciascuno di noi. La mente unisce le linee, ricompone le forme, assembla i corpi.

Chi è l’Altro? Propriamente, per ciascuno di noi, sotto la pelle, sotto la superficie, è il Nulla…