lunedì 20 ottobre 2014

Shanghai

Ci diamo appuntamento oltre la boscaglia, là dove finisce la radura, davanti al bar in mezzo al parco.
Entriamo. Dentro sono tutti stipati, tra gambe d’alluminio e piani in fòrmica. Ci fanno sedere. Lei: “Come stai? E’ passato tanto tempo. Il tuo sguardo sfuggente è quello di sempre, quello che ho amato.”
Do una rapida occhiata intorno a noi; ovunque, vedo busti d’alluminio, arti di fòrmica.
“Ricordi la sera del primo appuntamento?” le chiedo. “Ero arrivato in anticipo, e mi avevi invitato a salire. Ti vestivi dietro la porta accostata. Riuscivo a sentire il cigolio dei cardini dell’armadio, il fruscio dei vestiti, il battere dei tacchi sul pavimento. Quante volte hai aperto e chiuso i cassetti… Forse è stato quello, aspettarti seduto in soggiorno, udirti appena mentre ti preparavi a uscire, il momento più bello.”
Agli altri tavolini, alcuni bicchieri si urtano, le facce si sovrappongono, separate dai corpi, opache; le risate hanno una consistenza tattile, simile a quella del vetro. La cameriera, incarnato rosa pallido sotto indumenti rosa acceso, prende nota distrattamente delle ordinazioni.
Continuiamo a parlare. Le nostre voci lentamente si spengono, sorrido al movimento delle sue labbra disadorne. Estraggo il pacchetto di sigarette dalla tasca interna della giacca. Poi, non so dire esattamente cosa accade, rovescio le sigarette sul piano in fòrmica. Lei mi fissa: “Lasciale lì.” Le sigarette sono cadute una sopra l’altra, inclinate in un groviglio come i bastoncini di una partita a shanghai. Prendo la prima in alto, la più facile da raccogliere senza far muovere le altre. L’accendo. E ancora una volta, senza capire bene perché, sbaglio qualcosa.


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