L’intercity entra nella stazione di Milano Centrale alle
otto e cinquanta. Scendo dal treno, e mi trovo in mezzo ai manichini. Una
miriade di manichini affolla la banchina; in qualunque direzione diriga lo
sguardo, non vedo altro che manichini, a perdita d’occhio. I manichini sono
calvi, dai lineamenti asessuati. Indossano abiti maschili o femminili, perlopiù
giacca e cravatta o tailleur. Sono immobili; ciascuno è sistemato in una
posizione particolare, è disposto in una particolare postura che ricalca
un gesto, che allude a un’intenzione, a un movimento. Lembi di plastica color
rosa carico spuntano dai vestiti, offrendosi ai miei occhi come mani, facce,
nuche assemblate in serie. Le superfici visibili sono perfettamente lisce,
glabre, dure. Fatico a muovermi in mezzo alla moltitudine dei manichini. Mi
sento assediato, in trappola. Il respiro diventa affannoso. Comincio a farmi
largo sbracciando, sgomitando; nell’urto, alcuni manichini barcollano
paurosamente ma rimangono in piedi, pochi si inclinano e cadono al suolo.
Scendo le scale mobili, percorro l’atrio della stazione, anch’esso intasato dai
manichini. Il sudore mi cola sulla faccia. A stento riesco a raggiungere la
scalinata di accesso alla metropolitana. I manichini sono del tutto
indifferenti ai miei sforzi; sembrano privi di qualsiasi sentore della mia
esistenza…
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